Mondoperaio n.7/luglio 2011
Milano chiama Italia.
Un’ipoteca sul cambiamento della parola “sinistra”
Cronaca di un successo per nulla annunciato
Stefano Rolando
Ho formulato prime riflessioni sull’esito del voto a Milano sulle colonne del Riformista – proprio all’indomani – partendo da una “novità” della rappresentazione di sé della sinistra milanese.
Più di una voce a Milano, infatti, tra cui quella di Giuliano Pisapia nella prima dichiarazione di accoglienza del risultato trionfale, nella necessità di definire con una parola l’identità del complesso schieramento dei vincitori, ha detto “i riformisti”. Torno volentieri sull’argomento – utilizzando brani di quel testo per ampliarli con altre sottolineature e altri spunti – su Mondoperaio, rivista che ha dedicato tutto il biennio della sua “nuova serie” a indagare se, sulle ceneri della prima repubblica e dei partiti che hanno caratterizzato la rappresentanza progressista in quegli anni, sta sorgendo e potrebbe sorgere qualcosa di post-ideologico ma non di post-politico in grado di riprendere consenso e porsi alla guida non effimera e dunque anche “identitaria” del governo del paese. Argomento che – semplificando il dato politico, come fanno abitualmente i corrispondenti della stampa estera – le maggiori testate internazionali (cominciando da Philippe Ridet di Le Monde) colgono nelle elezioni di maggio, con una punta di dubbio sulla capacità di connessione nazionale di fenomeni legati alle sperimentazioni locali, alle culture difformi delle città.
Come ben si sa, fino a pochi anni fa la parola “riformisti” connotava (a malapena) i socialisti, ed era sovente tacciata a sinistra come una parolaccia. Rispetto ai modi di caratterizzare le sinistre, sentire oggi che a Milano hanno vinto “i riformisti” può far pensare che ciò corrisponda ad un casuale rimando alla tradizione amministrativa della città nella storia nel novecento fino al 1993 – cioè prima del governo locale delle varie “destre” – e dunque al bisogno di una “radice” per esprimere comunicativamente, cioè in modo riconoscibile per la città, la sorpresa del cambiamento. Ma può anche far pensare che questa espressione contenga – rispetto all’oggi – l’unico baricentro di cultura politica praticabile per dare volto al cambiamento. Un cambiamento che durerà almeno cinque anni, anni essenziali rispetto all’internazionalizzazione di Milano fattore di salvezza dell’Italia e rispetto ai laboratori che questa città sta innescando: la coesione di vaste masse di immigrazione integrata nei processi produttivi; la soluzione di scelte di eco-sostenibilità che sono una strategia stessa per l’organizzazione urbanistica delle nostre città; il rilancio della capacità del territorio (risolvendo in chiave sensata il federalismo fiscale) di essere di nuovo fattore di attrazione di risorse; il ritorno della legalità nelle dinamiche pubblico-privato e nel rapporto tra denaro pubblico e gruppi di pressione; la compenetrazione della crescita dell’edilizia in una visione equa ed equilibrata della fisionomia sociale ed ecologica della città. Poste in gioco (queste e altre) talmente importanti che un nome alla stagione che si sta avviando ci deve pure essere. Proviamo a vedere se la parola “riformisti” ha senso e preannuncia tenuta.
Un passo indietro
Allora “a Milano hanno vinto i riformisti”? I socialisti abituati ad avere ragione in ritardo, questa volta l’avrebbero da morti. Infatti non è una ricostituita forza socialista, baricentro ideale di una composita coalizione, che ha vinto le elezioni amministrative più simboliche degli ultimi venti anni. Anzi, queste elezioni segnalano una sorta di dissoluzione ulteriore dei socialisti come forma partito. La tradizione comunista a Milano ha avuto una lunga stagione di collaborazione di governo con i socialisti. Negli anni ’70 e negli anni ’80 la parola “riformisti” pur impiegata con aggettivi dissimili, pur sottintendendo vocazioni storiche diverse, ha offerto una condizione che è stata riconosciuta a lungo come maggioritaria dagli elettori. La lacerazione è negli anni ’90 quando i comunisti evolvono in forma camaleontica sul territorio anche elettorale dei socialisti incoraggiandone in varie forme l’espulsione. Una parte dei socialisti trova rifugio, nel bombardamento, a destra, dove conserva un po’ penosamente l’auto-definizione di “riformisti” che – come tutte le definizioni di sapore ideologico - Berlusconi tratta solo come una etichetta elettorale senza darvi né valore né riconoscibilità. Un’altra parte dei socialisti, tenuta fuori dalla nascita e dall’evoluzione del PD, non riesce più a dare dignità elettorale a quell’espressione, facendola altrettanto penosamente coincidere con percentuali irrisorie. A poco a poco la parola riformista finisce di essere una forte connotazione di minoranza combattente, contro il dogmatismo comunista e contro la palude democristiana, e diventa una generica attribuzione di schieramento più accettabile che cascare nello scontro verbale di Berlusconi che preferirebbe chiamare i suoi avversari “sinistra”.
Eppure erano stati proprio i socialisti riformisti ad immaginare – già negli scricchiolii di sistema dell’inizio degli anni ’90 – un tentativo di superare definitivamente i contenitori ideologici del ‘900. Anche quello della socialdemocrazia che – dopo il trionfo degli anni ’80 – faceva presagire crisi e involuzione per perdita di analisi del cambiamento sociale dell’Europa con più consumismo e meno welfare. Furono infatti i socialisti italiani ad immaginare per primi la costituzione di un partito democratico sul modello americano (modello identitario non modello di partito), anticipando appunto la crisi della socialdemocrazia europea in una aggregazione progressista per leggere il cambiamento della società post-industriale e per promuovere una nuova alleanza tra lavoratori e ceti produttivi. Soprattutto per spaccare il blocco sociale generato dalla nuova destra italiana tra borghesi della rendita e piccolo-borghesi e proletari accecati dalla consolazione televisiva (essendo dall’origine la tv il vero partito di Berlusconi). Quell’intuizione non ebbe né il tempo né la forza di esprimersi. Il PD fu avviato come sommatoria di residui PCI e DC, i tentativi di generare una gamba con le forze laiche della prima repubblica produsse solo l’adesione di un piccolo notabilato. La marginalità del carattere liberal, in particolare a Milano, ha poi accentuato una vocazione alla sconfitta nella sinistra perché la vittoria in politica nasce quando il nuovo, cioè la proposta, non ha paura della propria storia.
L’anticamera della rivoluzione
Da Borghini (1993) a Pisapia (2011) scorre questo fiume. Che vi fosse il guado nel 2011, che la traversata delle acque infide fosse finita con un approdo, non era cosa per nulla chiara. Né considerata come elemento di certezza nell’avvio della campagna elettorale per le municipali contro un sindaco uscente con un nome altisonante, naturalmente portato a chiedere il secondo mandato dopo aver portato a Milano l’Expo nel primo. Anzi, la sinistra italiana – locale e nazionale – a primarie avviate dava per scontato che Letizia Moratti avrebbe rivinto a mani basse. Inutile star lì a perdere tempo con le definizioni. Sinistra democratica, sinistra radicale, sinistra riformista, Sinistra-Centro, Centro-Sinistra, Ulivo, vattelapesca : meglio neppure investire sulle etichette perché quella del 2011 non sarà ancora l’etichetta buona. Non facciamo l’elenco – che sarebbe lungo – di tanti perspicaci politici e osservatori nazionali di tendenza centro-sinistra che a Roma davano per certa la conferma della Moratti, pur dopo l’affermazione di Pisapia alle primarie.
L’unico ad avere per tempo segnali diversi era Berlusconi, a cui i sondaggi riferivano di un sindaco poco popolare, di risultati amministrativi non eclatanti, di un sentimento di irritazione nel mondo cattolico e nella borghesia ancora incerto nel focalizzarsi politicamente. La valutazione al primo turno del valore elettorale della coalizione attorno al nome di Letizia Moratti stava in un foglietto di pochi centimetri quadrati nelle mani del premier: Milano 40%. Due ipotesi: sostituire la Moratti oppure scendere in campo di persona. Impossibile la prima scelta, combattuta la seconda (presa il giorno in cui Mannheimer segnalava la discesa del consenso personale del premier in Italia dal 58% dell’anno precedente al 33%).
A Milano le primarie del centro-sinistra (uno dei fattori di democrazia “interna” che questa volta farà la differenza anche per l’elettorato non schierato) profilavano tre esponenti di spessore culturale e civile, preludevano ad un risveglio partecipativo e promettevano sorprese: il popolo del centro-sinistra avrebbe ringraziato con un certo consenso un architetto professionista, Stefano Boeri, di rinomata famiglia, di rilievo culturale (direttore di “Abitare” oltre che progettista in vista) espressione - ancora come indipendente - del PD, ma per questa appartenenza (scontando il grigiore di Penati e lo sconfittismo decennale) non meritevole di successo; avrebbe dato persino un riconoscimento imprevisto al presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida, storico costituzionalista della Statale e padre anche dello Statuto del Comune (oltre il 13%); ma avrebbe decretato il successo del vero outisder, Giuliano Pisapia, sostenuto in primo luogo da SEL in una composizione di alleanze all’insegna non solo della discontinuità della rappresentanza della sinistra ma anche della riconoscibilità di una figura seriamente alternativa al ceto politico arrogante di ogni nomenklatura (di destra e di sinistra) in sintonia con un‘onda montante nella città e nel paese, con una colonna vertebrale costituita dal ritorno sulla scena del protagonismo civile delle donne. Appoggiato dall’inizio – sia detto su queste colonne – da alcuni socialisti di visione europeistica e riformista che hanno colto prima di altri le potenzialità del suo profilo.
Il teatro del confonto
Dunque la competizione a Milano si caratterizza ai primi dell’anno con questo scenario simbolico.
- Il centro-destra soffoca malumori e conflitti, segnatamente quelli tra PdL e Lega, ma anche quelli tra Comune e Regione, quelli tra ciellini e pretoriani, quelli ancora più gravi tra ceto politico e cortigiani del premier. Con un candidato – forte più che altro del nome di famiglia e della propria capacità finanziaria - che ha una rendicontazione amministrativa sostanzialmente incompiuta (salvo l’approvazione in extremis di un pur discusso e criticato PGT) ; con l’Expo fonte di flop gestionali; con una sopraggiunta crisi di immagine per palesi irregolarità denunciate dai radicali alle elezioni regionali del politico di maggior riferimento, il presidente della Regione Roberto Formigoni e successivo attacco del Corriere della Sera al presidente della Provincia Guido Podestà sospettato (due pagine intere nazionali) di clientelismo.
- Il centro-sinistra, tonificato dalla primarie, con un candidato rispettato nella città (politicamente dalla sinistra, socialmente anche dalla borghesia), in frenetico lavoro partecipativo (le Officine), ma non accreditato né dalla politica nazionale e neppure dai votanti del centro-sinistra milanese di potercela fare.
La data spartiacque è il 13 febbraio. Piazza Castello non basta a contenere l’invasione allegra, ferma, civilissima delle donne (accompagnate spesso da mariti, fidanzati e fratelli) di “Se non ora quando” segnalando una condizione di bottom up non prevista dai media e neppure dai sociologi. Una sorta di imprevedibile rivolta borghese di tipo “mediterraneo” che lascia il segno, mette in difficoltà l’elettorato femminile del centro-destra, fa emergere come caso politico nazionale il divorzio tra società e premier in materia di concezione della donna e della parità dei sessi. Due settimane dopo Giuliano Pisapia si presenta al Teatro Dal Verme, il 26 febbraio, in quel clima, per illustrare la sua campagna. Rimette insieme – malgrado ovvie tensioni – la terna delle primarie sul palco. Fa presentare i programmi delle Officine a tre giovani donne. Chiede alla borghesia milanese di dargli fiducia e di partecipare alla nuova elaborazione, facendo parlare (con applausi non scontati di migliaia di militanti della sinistra) un asciutto e non demagogico Piero Bassetti. Unisce il vincitore di Sanremo Roberto Vecchioni e si limita a proporre la sua gentilezza come driver della direzione del nuovo vento. Un successo clamoroso.
La radiografia del successo
Se ora – a risultato acclarato - si può parlare di “laboratorio possibile” a Milano, se addirittura si può immaginare un segnale forte offerto al paese, insieme agli esiti di molte altre città, come occasione di riconsiderazione delle dinamiche maggiori della politica italiana, bisogna partire dal comprendere meglio proprio il successo del nuovo sindaco.
Se Napoli si presenta in questo contesto come la fotografia opposta di Torino (Torino la città in cui destra e sinistra sono compostamente rappresentate ancora da partiti, che esprimono fisiologicamente classe dirigente nel nome alla fine di Piero Fassino; Napoli la città che cerca con la spinta soprattutto dei giovani e dei giovanissimi di spazzare via tanto i partiti di centro sinistra quanto quelli di centrodestra ricorrendo ad un sindaco vendicatore come Luigi De Magistris), Milano si va configurando come un contesto intermedio. I partiti non bastano a promuovere consenso, ma senza partiti non si organizzano le condizioni di gestione democratica del consenso.
Così Pisapia prende le mosse della sua campagna mettendo insieme la più ampia coalizione possibile di partiti. Ma subito dopo sollecita l’emersione di un nuovo blocco sociale tra cittadini reputati, associazionismo interclassista fino a fare intravedere nel sociale un allargamento possibile della sua maggioranza. Si caratterizza sempre più come candidato indipendente, continuando a non negare la sua storia e considerandosi espressione di una sinistra con connotazioni libertarie. Non lo rivendica, ma i cittadini sanno che ha sconfitto alle primarie il candidato del PD, partito privo di leadership nel territorio che avendo solo parzialmente investito su gruppi dirigenti davvero nuovi (per età e per metodo), ha fatto la corsa ancora con un professionista civile pur più brillante dei precedenti.
Affronta in condizioni impari la campagna, si dice uno a dieci. Il centro-destra pesa nelle tv e nelle affissioni. Il centro-sinistra è presente sulle radio ed è forte nella rete. Sulla carta stampata è patta, con un po’ di vantaggio per la Moratti che ha più potere di acquisto. La scelta di Berlusconi di espropriare i milanesi e imporre sé come centro referendario della campagna elettorale si rivela infausta. Per “correggerla” vengono compiuti due ulteriori errori : l’utilizzo al ballottaggio di un glaciale ex-sindaco Gabriele Albertini, come se le fotografie poco entusiastiche insieme a Letizia Moratti potessero cancellare i noti dissensi tra i due (rimasti tali), forse per inseguire la falsa pista proposta da Massimo Cacciari per il terzo polo attorno allo stesso Albertini; l’artiglieria di famiglia (il Giornale in testa) che ha puntato ad alzare i toni orchestrando una campagna che ha dipinto Pisapia come estremista, zingarofilo ed eversore. Il faccia a faccia finale negli studi di Sky è la scivolata finale di Letizia Moratti che lo accusa di essere stato un ladro d’auto amnistiato. Non ha visto o non ha voluto vedere tutte le carte processuali che chiudono il dossier con assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto. La mano ritirata per sdegno di Pisapia vale tutta la campagna: gesto d’istinto che sarà accompagnato da una epocale creatività ironica sulle accuse strampalate del centro-destra.
La rete si tinge di arancione (il coloro della lista civica per Pisapia): batterà il potere delle tv. Da parte della Moratti un altro errore fatale in un moderno contesto comunicativo in cui la rete assume un ruolo di crescente importanza, appunto stimato più forte delle tv: quello di immaginare di sostituire la scarsissima partecipazione con i soldi. Nelle pagine dei fan – che attorno a Pisapia incanalano in modo torrentizio giovani e meno giovani, tra componenti di partito e area civica, con arrivo continuo di cittadini comuni – la Moratti balza da 3000 sostenitori a 35 mila nella stessa giornata. Sono le cose che il popolo del web riconosce a vista come false, screditando quei luoghi come inquinati.
Pisapia – che avrebbe sofferto un confronto tecnico sugli aspetti gestionali e amministrativi – dalla campagna ricca e rissosa della Morati esce dal confronto sempre meno estremizzato, più saldo nel suo baricentro di mediazione prudente e allargata. Una sorta di neo-mitterrandismo senza i connotati chiusi di un partito, identificato con la gente, le famiglie delle biciclette, i mestieri normali, i figli portati ai comizi, l’arancione spiritoso, le gag che hanno rovesciato i tormentoni propagandistici della Moratti, il ritrovarsi in piazza o in rete contro la politica artificiale costruita con i soldi e le tv. Soprattutto detonatore di una riscossa borghese contro il provincialismo razzista e per un nuovo sguardo internazionale di Milano (sull’argomento Giuseppe Bedeschi scrive ora – Corriere della Sera, 4 giugno – una lucidissima risposta alla inerte constatazione di Piero Ostellino che Milano ha espresso “due borghesie” ricordando il fondamento interpretativo dello stesso Marx su “la borghesia che – come scriveva Marx – non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali”). Insomma i tre mesi della campagna elettorale producono un capitale sociale immenso che doveva presupporre doti in chi cercava di conquistarlo. Non le doti classiche dei politici di sinistra “che ci sanno fare”. Neppure le doti da sole dei “novellatori”, tra cui lo stesso Vendola, che una volta (all’Arco della Pace) infiamma gli elettori, ma la seconda volta è meno in sintonia con l’immagine saggia e gentile del sindaco che ha conquistato la maggioranza. In ogni caso Vendola appare a Milano non come un estremista ma come un socialista antico e deamicisiano, più retore che giacobino. Infine Pisapia mantiene la sua caratura di avvocato di tante cause giuste (che gli mantengono la solidarietà dei centro cattolici, della Casa della Carità di don Colmegna e, senza platealità, della stessa Curia che culmina con le dichiarazioni del cardinale Tettamanzi sulla necessità del cambiamento a Milano e l’auspicio di “una nuova primavera”. Un avvocato che permette anche qualche benevolenza da destra perché lontano da ogni giustizialismo ma radicato nella sua cultura garantista.
L’abbozzo del laboratorio
I lettori hanno già capito che razza di laboratorio è abbozzato, che potenzialità si intravedono pur come prime ipotesi. Non sono solo ipotesi però i risultati già acquisiti.
Pisapia ha battuto l’esercito più armato della politica italiana in 65 anni di Repubblica – quello della comunicazione berlusconiana alleata ai soldi dei Moratti – impedendo a ogni soggetto della coalizione di proporsi come luogo egemonico. Anche il PD, votato da un elettore su tre. Bersani ha assunto il saggio comportamento del “no leader party”, senza salire sul palco a fine campagna e rispettando la novità sociale dell’affermazione di Pisapia. L’evoluzione del PD (in cui ha contato anche il ruolo nervoso ma in sostanza coraggioso di Stefano Boeri di stare in gioco sempre, anche in forma comprimaria) è ora – se lo stesso PD si percepirà così - parte del laboratorio. Inoltre Pisapia – confermando la formula “partiti più società” - ha tenuto insieme marxisti e liberali, radicali e verdi, con visibile accoglienza di cattolici e socialisti, allargando al ballottaggio a liberali storici, repubblicani e ampi settori del terzo polo. Ha permesso di distinguere l’appoggio dei salotti dei “soliti noti” dagli appelli nati nelle professioni, nelle università, nelle imprese che hanno fatto affiancare Piero Bassetti al candidato sindaco nell’iconografia simbolica della campagna. Pisapia ha fatto emergere ciò che di storico (ma non dimenticato) e di innovativo (e dunque ancora non protagonista) la città di Milano, distratta ma non sopita, stufa ma non inerte, esprimeva politicamente (partiti e associazioni). Così Gad Lerner, riconsiderando le cose su Repubblica (3 giugno) : “Bisognava esserci , nel giugno 2009, ai funerali del cantautore della sinistra milanese Ivan Della Mea, nel “suo” circolo Arci-Corvetto per ricordare come la rete dell’associazionismo popolare socialista, comunista, cattolico, sessantottino, ramificata lungo più di un secolo nei quartieri cittadini, ha continuato ad esistere. Dimenticata, in attesa che qualcuno le rivolgesse di nuovo parole di impegno e di riscatto”. Questi radicamenti sono stati tante volte catalizzati come serbatoi di voti da candidati costruiti a tavolino ed estranei a questo tessuto. Giuliano Pisapia (grazie allo straordinario lavoro di Paolo Limonta) li ha frequentati, ascoltati, galvanizzati e, per giunta, moderati. Da trent’anni, in realtà, parlando di istituzioni (e quanto è “istituzione” a Milano Palazzo Marino!), questa sinistra aspettava almeno un nuovo Pertini.
Berlusconi ha guidato la campagna del primo turno uscendone con i voti dimezzati e lasciando la Moratti a 7 punti. Qualcuno ha detto non per merito di Pisapia ma per declino del Cavaliere. Alla luce di quanto detto diciamo almeno un “mah!”.
Al ballottaggio si è dato fondo all’indecenza: la Moratti ha risfoderato sorrisi da parata, ma intanto call center finti (ambiguamente istituzionali) per “aiutare a votare gli anziani” ampliavano il marketing elettorale di mercati, ospizi, ospedali. Voci di voti comprati, esplose le affissioni abusive su Belzebù alle porte. Le urne hanno portato il distacco a 10 punti. Qualcuno dirà: non ancora merito di Pisapia ma disperazione della Moratti. Ma via, la verità è che il vento è cambiato, ma qualcuno doveva percepirlo, crederci e interpretare la nuova direzione.
Un dato – offerto con chiarezza dalle urne – stacca il ruolo del neo-sindaco dal sistema dei partiti: 50 mila voti (al primo turno) solo a lui, senza indicazioni poste sulle liste di sostegno e circa 25 mila voti acquisiti dalla lista civica promossa con candidati al di fuori dei partiti. 75 mila voti rispetto ai 45 mila voti che costituiscono il distacco tra Pisapia e Moratti al primo turno. Fosse dipeso dalla “vecchia sinistra”, insomma, essa avrebbe un’altra volta riperso, come ha perso per 18 anni. Vero è che la curva di consenso del centrodestra declina dal 1997 (era 59,8 % ed è arrivata a 44,9%) e quella del centrosinistra, per converso, è sempre cresciuta. Nel 2006 il rapporto era 51,9% a 47,0%. Ora la spallata è arrivata con il “valore aggiunto Pisapia”. Nell’analisi della composizione sociale del voto (Dario Di Vico, su analisi SWG nel Corriere del 31 maggio) si capisce che la “spallata” ha caratteri significativi per il futuro governo della città: Pisapia è avanti al centrodestra di 17 punti nell’area dei professionisti e dei lavoratori autonomi ed è avanti di 20 punti tra i laureati.
A questo punto di una storia corale (piazze, rete, passaparola), viene anche l’idea che ci siano condizioni per parlare di buona amministrazione a Milano (in sé essenziale laboratorio di classe dirigente, pur con serissimi problemi da superare); ma che si possa anche tentare un ancor più difficile disegno, quello sulla riarticolazione della politica della sinistra al plurale in un paese, improvvisamente e comunque anche grazie a Milano, mostratosi civilmente più maturo.
Per “buona amministrazione” non si deve intendere in modo compiaciuto e a-critico che si tratti della “nostra” amministrazione e perciò per definizione faziosa “buona”. Si dovrebbe intendere ciò che Pisapia, nel corso della campagna elettorale, ha chiamato il risultato della “buona politica”. Una politica è buona quando ritrova l’etica e in particolare – se ne è già fatto un cenno - quando riconnette poteri e saperi. Se i saperi non tornano nei ruoli di regia (della politica e dell’amministrazione) il laboratorio si potrà chiamare in tanti modi ma sarà difficile chiamarlo della “buona politica”.
E’ possibile immaginare dunque che un obiettivo del “laboratorio” inteso nella buona politica così concepita permetterebbe anche di affrontare – almeno tendenzialmente – il dato ineludibile degli esiti elettorali: il 37% dei milanesi ha votato per Pisapia, il 30% ha votato per Moratti ma il 33% non ha voluto votare per nessuno.
Rapidamente dopo il ballottaggio sono arrivate anche le analisi dei flussi tra il primo e il secondo turno. Il prof. Roberto D’Alimonte (Il Sole 24 ore, 5 giugno 2011) ha fornito i seguenti dati:
- il terzo polo (36 mila voti per Palmeri al primo turno): 20 mila hanno votato Moratti, 12 mila hanno votato Pisapia, 4 mila non hanno più votato;
- elettori di centro-sinistra al primo turno, che avevano votato Pisapia: 12 mila hanno votato per la Moratti al ballottaggio;
- elettori di centro-destra al primo turno,che avevano votato Moratti: 19.000 hanno votato Pisapia al ballottaggio;
- dunque il saldo nei due sensi è di 7000 elettori a favore di Pisapia;
- i “grillini” (22 mila voti per Calise al primo turno): 13 mila hanno votato Pisapia, 3 mila hanno votato Moratti, 6 mila non hanno più votato;
- dei 9 mila voti sparsi per altri candidati sindaci al primo turno: 4 mila sono andati a Pisapia, 5 mila alla Moratti;
- tra chi non ha votato nessuno al primo turno, Pisapia ha recuperato 11 mila voti, la Moratti 2 mila.
Il fiancheggiamento della borghesia milanese
Si è già scritto di questo profilo della campagna e ha fatto molto notizia l’operazione testimoniale e partecipativa di circa duecento rappresentanti non dei salotti ma delle professioni (università, scienza, ricerca, impresa, giustizia, economia) catalizzate da Piero Bassetti attorno alla formula Iniziativa per il 51 per cento (fino al primo turno) e Iniziativa oltre il 51 per cento (dal ballottaggio in poi) per aggiungere ancora qualche annotazione guardando alla prospettiva. La “notizia” in senso giornalistico è venuta dal fatto che quel mondo era considerato rappresentabile e in realtà rappresentato da una figura come Letizia Moratti, lasciando poi che Umberto Eco o Dario Fo firmassero appelli per qualunque candidato la sinistra cercasse di opporre alla versione ambrosiana del berlusconismo. La spaccatura di questo fronte (le “due borghesie” ricordate nelle citazione di Ostellino) si deve intanto alla discesa in campo di una figura significativa dello stesso mondo (avvocato di primo piano, figlio di un grande giurista, famiglia borghese reputata) ma soprattutto si deve all’aver fatto prevalere il centro-destra nel radicamento della classe dirigente amministrativa figure espressione degli apparati di partiti improvvisati (tanto la Lega quanto il PDL, fatta salva la componente di CL che ha mantenuto attenzione nella selezione) con gli inquinamenti vistosi del “caso Minetti” in Consiglio regionale (in realtà ben più della singola Minetti, che tuttavia ha avuto valenze emblematiche e di scossa nel centro-destra anche per la coraggiosa opposizione viscerale creata da una giovane militante del PDL, Sara Giudice, che ha segnalato un diritto al dissenso che nessuno osava esprimere). Si aggiunga la sensazione, circa la modalità di gestione del rapporto tra economia e cultura, di saperi sempre meno coinvolti nei poteri per far intendere a molti che il senso di marcia della città (obbligata alla competizione, obbligata all’internazionalizzazione, obbligata all’innovazione) mancava di motore e per lo più – limite anche personale della Moratti – di capacità di racconto. Questo fiancheggiamento è stato, dunque, vivissimo, persino passionale, come una sorta di risveglio civile e con il bisogno di “dire la propria” non solo genericamente ma anche specificatamente su alcuni aspetti delle politiche pubbliche. Dibattiti sul PGT e l’urbanistica, sui destini dell’Expo, sul rapporto tra ambiente e qualità della vita, sul tema giovani e anziani, sul profilo della dimensione culturale della città, sull’immigrazione e le politiche di coesione,eccetera. Si è così creata una condizione di “ascolto” che Pisapia ha utilizzato come leva elettorale, ma si sono anche poste premesse di equilibri nel sostegno della città al sindaco che ora devono trovare forme di traduzione nel concreto amministrativo, pena vedere quella fiducia di nuovo ritirarsi con il doppio rischio di perdere un fattore qualitativo della “maggioranza” e far crescere – oltre alla soglia che la città ormai tollera – la presenza dei partiti nelle dinamiche decisionali delle istituzioni locali.
Squadra e gruppo dirigente
Tutti i caratteri politici e simbolici che un’elezione fa emergere attorno alla figura di un candidato eletto devono poi tradursi in “racconto”. Racconto individuale, perché la leadership istituzionale di un sindaco viene da lontano, sopravvive a qualunque crisi delle istituzioni e resta patrimonio di una bilateralità tra cittadini e poteri che fa anche di una metropoli un “borgo umorale”. Racconto collettivo, perché gli atti conseguenti agli annunci dipendono dalla squadra (quella politica e quella manageriale) che si è formata.
Mentre si scrive non tutti i nodi sono sciolti. Tre fattori sembrano tuttavia evidenti:
- un terzo del Terzo polo ha scelto Pisapia al ballottaggio, oltre la metà ha scelto la Moratti; la scelta di Bruno Tabacci, esponente minoritario ma di larga popolarità del Terzo Polo di entrare in squadra con Pisapia è l’assunzione responsabile di un dato in sé appunto minoritario, ma con forza simbolica locale e nazionale molto alta che potrebbe sbloccare anche il rischio di paralisi di un soggetto politico che pure sconterà conflittualità ma finirà per essere partecipe di un cambiamento a più larga maggioranza e dunque di grande senso sperimentale;
- i partiti non entrano in giunta secondo le vecchie formule dei numeri di telefono, cioè pro-quota matematica dei voti raccolti e con la forma delle delegazioni di parte; ciò sottolinea il carattere dialettico tra le rappresentanze partitocratiche e la proposta di un consenso trasversale e riassuntivo che il Sindaco esprime con l’intelligenza dello stesso Sindaco di non fare pesare la “propria quota” che pure assicurerebbe un lotto non trascurabile di posti;
- la formula delle primarie, ove attuata con trasparenza e libera partecipazione, si riflette non solo fino all’avvio della campagna elettorale ma accompagna anche il metodo di ricomposizione di forze ed esponenti che si sono confrontati con antagonismo e che dimostrano – malgrado inevitabili scintille – di non poter tradire il mandato più sottile e fiduciario degli elettori, non quello delle rappresentanza ma quello della leadership.
Conclusioni (qualche ipotesi)
La conclusione di questa cronaca di un successo per nulla annunciato tiene conto del profilo in sé di una città che ha recuperato un patto di ritorno alla politica per giovani e anziani, rinsaldando piazze e studi professionali, biciclette e mezzi pubblici, residenti ed immigrati. Per Marina Terragni (Il Foglio, 3 giugno) donne, giovani, non violenza, i punti di forza che nutrono il distacco tra Pisapia e Moratti. Milano non sarà stata né “espugnata” né “liberata” – parole un po’ eccessive nella democrazia dell’alternanza avocate nell’euforia dell’annuncio dei risultati, poi riposte - – ma è certo che un consolidato blocco di potere è crollato contro le previsioni. Espellendo i miti infranti e il loro circo, perché a Milano è un “circo” quello dei La Russa, delle Santanchè, della nuova (ora propriamente) Milano da bere, con un seguito sociale per nulla esiguo e forse tuttora per nulla disposto a perdere la platealità che ha avuto per anni. Ma dovrà ricostituire una leadership. Tra l’altro Letizia Moratti – sobria per educazione – non ha salvato la sua autonomia di immagine rispetto a quella imposta da un partito arcorizzato. Che ha finito anche per venire ai ferri corti con la Lega. Non solo per stile ma anche per l’onda di sottrazione di consensi che – guardando più ampiamente alla Padania – è pesante per una Lega che si credeva in crescita.
D’altro canto nel centro sinistra si apre il capitolo della formazione di un gruppo dirigente – ai preliminari, mentre si scrive – che è un profilo su cui le alleanze sociali maturate in campagna elettorale non tarderanno a dare convinti consensi o dissensi senza sconti (Piero Bassetti ha parlato di “coro greco” in funzione, che come si sa non tace facendo tappezzeria ma approva o disapprova rumorosamente; e insieme a lui altri protagonisti del dibattito – come Marco Vitale – hanno annunciato libertà di giudizio e di critica, per segnalando subito consenso a Pisapia per essersi smarcato da Vendola aprendo a Tabacci). Dunque sfida molto impegnativa che Pisapia sta impostando con il massimo di potere personale per condurre le trattative secondo le sue regole. Ma il cui esito finale sarà interessante circa la piega del “laboratorio” che deve segnalare istituzioni non soffocate dai partiti ma anche un clima di rigenerazione dei partiti stessi. Si è anche creato un clima di altissime aspettative – di metodo, di relazione, di partecipazione – in relazione a cui non c’era una preparazione per disporre di rapide procedure di accoglienza all’altezza dei nuovi sentimenti generati. Un argomento da non sottovalutare e attorno a cui dovranno essere date risposte nuove non di “aggiusta mento” ma di vera comprensione del valore moderno della democrazia partecipativa.
Una lezione (Milano,Napoli, Cagliari ma anche altre città) riguarda certamente la comunicazione politica. Quella legata alle opzioni nazionali è ancora dominata dalla tv. Qui il “contenitore città” è stato soggetto del cambiamento anche perché ha fronteggiato le tv con le dinamiche molecolari proprie di una città: la rete, intanto, che virtualizza ma accomuna, quindi mantiene distanze ma crea anche vicinanze, le piazze, i muri, i luoghi di vita e lavoro. Le città sono state protagoniste di partecipazione e di comunicazione, l’opzione del cambiamento ha generato forme relazionali e comunicative che hanno respinto la passività dell’ascolto televisivo. Ilvo Diamanti ha colto qui la conferma di un dato storico: le città consentono anche sperimentazione politica che il quadro politico nazionale non riesce a promuovere (negli anni ’60 e ’70 si diceva che i luoghi di anticipazione di nuovi assetti politici in Italia erano il Comune di Milano e il Consiglio di amministrazione della Rai). Per questo si apre una politica di riverbero, sull’area metropolitana, sulla Regione, sul Paese che non segue solo la pista dell’economia (investimenti, occupazione, ripresa produttiva) ma anche la pista della politica. E’ il banco di prova di quello che qui abbiamo chiamato “laboratorio riformista”. Welfare e benessere – per cui mancano le risorse a Roma – potranno trovare fonti di copertura a Milano? E qui l’ipotesi che le città tornate alla politica del “miglioramento per tutti” premano ora – in forma più coordinata – sul “federalismo sensato” ha un suo fondamento.
L’ipotesi che lanciò Chiamparino (dalla presidenza dell’ANCI) alla Lega non è escluso che diventi un tavolo di prova tra Palazzo Marino (tenendo in sintonia anche Torino, Napoli, Trieste, Bologna, Genova, Firenze,Bari, eccetera) e quelle componenti leghiste che escono dalle elezioni con il convincimento che l’accordo con Berlusconi porta promesse di Pulcinella e fa diminuire consensi. Insomma il “laboratorio” potrebbe esprimere a breve anche una sinistra capace di alleanze così ampie da coinvolgere l’unico fattore che – come lo ha già fatto quindici anni fa – sbarra la strada a un governo che invece con il “motorino alla Scilipoti” parrebbe destinato a dare altri due anni di involuzione al Paese. Con il federalismo – discusso a larghe e realistiche convergenze – si genererebbe un riformismo al tempo stesso creativo e competitivo. Per l’Italia in movimento sarebbe la fuoriuscita dalle parole vacue e dall’incantamento di un premier che – chi lo conosce lo sa – non ha alcuna passione né alcun interesse nel fare le riforme ma è solo preso (e anche questo sempre meno) dal divertimento di comunicarle. Ma ciò per ora è solo un “post it” nel quadro di una politica nazionale che ha ricevuto una robusta scossa ma che – a destra e a sinistra – preferisce mantenere in testa la data del 2013 per regolare tutti i conti.
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